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This week, in what might be the funniest episode yet, Molly and Emese are joined by co-stars Amy Schumer and Brianne Howey. They get candid about motherhood, career evolution, and their new film, Kinda Pregnant —which unexpectedly led to Amy’s latest health discovery. Amy opens up about how public criticism led her to uncover her Cushing syndrome diagnosis, what it’s like to navigate comedy and Hollywood as a mom, and the importance of sharing birth stories without shame. Brianne shares how becoming a mother has shifted her perspective on work, how Ginny & Georgia ’s Georgia Miller compares to real-life parenting, and the power of female friendships in the industry. We also go behind the scenes of their new Netflix film, Kinda Pregnant —how Molly first got the script, why Amy and Brianne were drawn to the project, and what it means for women today. Plus, they reflect on their early career struggles, the moment they knew they “made it,” and how motherhood has reshaped their ambitions. From career highs to personal challenges, this episode is raw, funny, and packed with insights. Mentioned in the Episode: Kinda Pregnant Ginny & Georgia Meerkat 30 Rock Last Comic Standing Charlie Sheen Roast Inside Amy Schumer Amy Schumer on the Howard Stern Show Trainwreck Life & Beth Expecting Amy 45RPM Clothing Brand A Sony Music Entertainment production. Find more great podcasts from Sony Music Entertainment at sonymusic.com/podcasts and follow us at @sonypodcasts To bring your brand to life in this podcast, email podcastadsales@sonymusic.com Learn more about your ad choices. Visit podcastchoices.com/adchoices…
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Inizia la rubrica radiofonica "Parole in Viaggio". L'intento è di approfondire puntata dopo puntata alcuni termini attraverso la loro storia, il significato, l'evoluzione e l'attuale utilizzo. Iniziamo oggi proprio con i due termini del titolo, parola e viaggio. Buon Ascolto!
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Buonasera a tutti e bentornati sulle frequenze di parole in viaggio! abbiamo vissuto dei mesi molto particolari, unici, o forse potremmo definirli provocatori. Provocatori nel senso che ci hanno offerto una possibilità magica: fermarsi, interrogarci sul mondo e su noi, prendere una decisione e ripartire. Sembra un passaggio scontato, ma il più delle volte ci manca il tempo o la volontà per farlo: di fronte a uno stimolo arriviamo presto a una decisione, saltando la fase della pausa, del tempo necessario per osservare e osservarci. Ci lasciamo prendere dalle tante e veloci cose che ogni giorno dobbiamo fare e di conseguenza è diventato normale non fermarsi. Invece, questi mesi ci hanno aiutato a riscoprire un altro sistema che da sempre appartiene all’uomo: prendersi il giusto tempo prima di scegliere e ripartire. Uno degli aspetti che più ci hanno colpiti nel profondo è stata la distanza, il dover prima rimanere completamente separati, chiusi in casa, e successivamente mantenere le distanze di sicurezza. Distanza, dal latino distare, indica l’essere disgiunto da altre persone o luoghi. Un distaccamento fisico, una lontananza. E’ curioso che il suo opposto, la vicinanza, ha un significato molto particolare. Vicino richiama il latino vicus, ovvero il quartiere, il rione, il borgo. Forse è quello che la lingua vuole comunicarci in questo momento storico: sentirsi vicino a qualcuno significa appartenere allo stesso quartiere, sensazione in parte vissuta durante il lockdown, quando molti italiani hanno scoperto e conosciuto il nome del vicino, hanno dato un volto alle case, alle porte, alle finestre. Alla fine vicus, il rione, è proprio l’insieme delle case, delle dimore ma anche delle infinite sensazioni di sentirsi a casa. Un mondo globale e interconnesso non ha più bisogno delle mura per identificare il luogo, ma preferisce le relazioni. Relazione, la relatio latina, non ha un unico significato, anzi. Sicuramente richiama il riportare, l’azione del portare di nuovo qualcosa, ma è anche la proposta da portare in senato, come è anche il racconto, il saper narrare. Arriva solo alla fine l’attinenza, il legame con qualcosa. In una parola si nasconde un mondo di significati ed effettivamente, anche al giorno d’oggi, avere una relazione o riuscire a mantenere una relazione, che sia affettiva, di amicizia, di lavoro o qualsiasi altra forma, prevede sicuramente un legame, ma anche il racconto, inteso come non nascondere le proprie sensazioni, le proprie emozioni, ma volerle condividere con l’altro. E soprattutto la relazione è riportare qualcosa, non basta consegnare un’unica volta, ma significa impegnarsi a ritornare, prendere e portare continuamente le nostre cose all’altro. Ora che sta per ripartire una nuova fase, il lavoro che riprende, le scuole che riaprono, le attività che ripartono, come la affronteremo? Saremo in grado prenderci il giusto spazio e tempo per affrontare la realtà? Oppure torneremo a dividerci noi per primi, senza bisogno di nessun decreto, di nessun lockdown, ma spontaneamente sceglieremo di separarci dalla relazione con l’altro.? Perchè c’è grande differenza tra separazione e divisione, c’è un grado di consapevolezza alle spalle che determina alcune scelte importanti. Separare significa prendere ciò che è pari, ciò che è uguale e posizionarlo in modo segregato, spaiato. Divisione invece prevede un’azione di vidus, di visione, di conoscenza, di ragionamento, di giudizio per poi rompere l’unione, perchè si è consapevoli del beneficio che tale divisione porterà. Sono modi diversi di intendere, sono modi diversi di vedere cosa ci succede attorno. Perchè se per il bene collettivo si divide le persone, significa che c’è stato un ragionamento e una consapevolezza tale che hanno portato a questa scelta. E chi subisce l’effetto può leggere la situazione come una separazione, come un rompere ciò che era normale e pertanto viverlo come un sopruso. Ma la stessa persona può vedere le cose come una divisione, come…
Buonasera a tutti e bentornati sulle frequenze di Parole in Viaggio. è iniziato un vero e proprio viaggio, non ci sono tante altre parole per descrivere la situazione in cui il nostro Paese insieme a tutti gli altri stati del mondo si trova. Un viaggio particolare, un viaggio che non ha meta ben definita se non la salvaguardia della salute. E per far questo, è giunto il momento di rivedere le priorità, di fermare il modello socio-economico che da decenni marciava ininterrotto: ci hanno provato in tanti, studiosi, luminari, pensatori, ma le loro parole non sono state sufficientemente convincenti a trovare una strada alternativa per rimodulare i modelli di sviluppo globale. In realtà questi giorni non possono essere usati per sterili polemiche contro amministratori e politici. Questo è il nostro tempo dell’attesa, dell’osservare, del guardare il mondo con quell’atteggiamento del servo umile, attento al suo padrone: ob servare. E il nostro padrone, o più che padrone il nostro punto di riferimento oggi come oggi devono essere tutte quelle persone che non possono rimanere chiuse in casa per mantenere elevato il livello della nostra sicurezza, per garantirci un elevato standard di benessere. Perchè forse non riusciamo a cogliere bene lo stato delle cose: abbiamo una casa, abbiamo uno spazio in cui muoverci liberamente, abbiamo una tecnologia tale da tenerci collegati con tutte le altre case, abbiamo un tempo che troppo a lungo non abbiamo potuto assaporare; e infine, se manteniamo tutte le precauzioni, siamo anche in buona salute. Questa è la realtà, uno spazio, un tempo, la salute. Certo, è strano aprire la finestra, vedere la natura che ci chiama con i suoi panorami, i suoi tramonti, le sue montagne, i suoi cieli incantati. Ma in questo momento dobbiamo guardare al nostro spazio e imparare a dire grazie. Grazie è una parola meravigliosa. Ci ricorda innanzitutto le tre grazie, le tre figlie di Giove che diventano il simbolo della bellezza, della gioia e della fioritura. E sono tre concetti che sempre quando pronunciamo questa parola magica inondano di profondità ciò che ci circonda. E devono essere le nostre guide quando pensiamo a tutti quelli che in questi giorni stanno lavorando per noi: rappresentano la bellezza del nostro Paese, una bellezza che rimane altissima anche quando sembra sprofondare negli abissi. Sono portatori di gioia, perchè stanno dimostrando a tutto il mondo quanto amano il loro lavoro, quanto valga quel senso di sentirsi parte a un sistema dove ognuno ha un ruolo fondamentale e prezioso. Infine sono come i fiori, sanno che il loro compito è ora di mantenere sana la pianta, curarla dalle infestazioni, dalle malattie, tenere vivo il cuore perchè arriverà il giorno in cui il fiore tornerà a mostrare la sua parte migliore, quel colore, quella luce, quel profumo che tutti noi conosciamo. Quando pronunciamo un grazie, ricordiamoci tutto questo, ricordiamoci anche che di solito diciamo grazie quando riceviamo un dono. Sembra strano, ma osserviamo bene il nostro stare a casa, il poter stare a casa in uno spazio nostro, con un tempo nostro, con i nostri cari vicini o facilmente raggiungibili con le nuove tecnologie, questo lo possiamo definire un dono straordinario. E come tale, va portato rispetto per chi ce lo dona, quotidianamente. E allora, a voi che state lavorando, che state rischiando le vostre vite, che state usando il vostro tempo per noi, vi diciamo Grazie, per la bellezza, per la gioia, per i fiori che ogni giorno ci portate nelle nostre case. e la bellezza della parola grazie, non si ferma solo alla lingua italiana. Se prendiamo il corrispondente verbo inglese to Thank scopriamo un altro interessante aspetto: alla base di tutto ritorna il verbo latino tongere, che significa conoscere, sapere. Inizialmente pertanto il grazie corrispondeva all’azione di consapevolezza, coincideva con il pensiero razionale di gratitudine, rendo grazie perchè riconosco il tuo gesto. E’ un po’ quello che ci sentiamo di dire…
Buonasera a tutti e bentornati sulle frequenze di parole in viaggio Stiamo vivendo giorni molto particolari, giorni in cui il concetto di tempo e di spazio lasciano posto a una nuova concezione di vita. La diffusione di questo virus ha sconvolto non tanto la paura e l’angoscia di esserne vittima, quanto invece ha rivoluzionato le nostre abitudini. C’è una duplice prospettiva, da un lato purtroppo le persone che stanno vivendo il contatto con la malattia, da chi è vittima del virus a chi cerca di rendere la guarigione più veloce e sicura possibile ( e a tutte queste persone va il nostro pensiero, il nostro supporto e il nostro ringraziamento), dall’altro invece la gran parte della popolazione che è costretta a rivedere tutto ciò che prima era scontato e abituale. Una quarantena forzata per chi ha conosciuto il virus, una quarantena forzata anche per chi fortunatamente non l’ha incontrato. Quarantena è una parola che in questi giorni viene spesso usata, l’isolamento, l’abbattimento dei contatti tra persone. Il concetto di quarantena nasce in pieno medioevo, quando a Venezia, la Serenissima Repubblica di Venezia, nel suo periodo di splendore, gestiva contatti mercantili e non con tutte le terre allora note, tutto il mondo conosciuto era in contatto con Venezia. E anche per questo non di rado arrivavano con merci e persone, anche malattie. Una volta Scoperto che il contatto era la causa, obbligarono l’equipaggio delle navi che sbarcavano a passare un periodo di isolamento prima di girare liberamente per calli e campielli, un periodo durante il quale se non comparivano strani sintomi o segni nel corpo, identificava la persona come non portatrice di malanni. Un periodo di quaranta giorni, una quarantina di giorni da cui la nostra parola… e di eventi catastrofici, purtroppo, ne è piena la storia dell’uomo; ancor di più da quando l’uomo ha iniziato a documentare ciò che succedeva: la parola ha trasformato i fatti in memoria collettiva, sebbene non sempre la memoria collettiva rappresenta quell’archivio che tutti siamo invitati a consultare. Non sempre gli esempi del passato sono elemento sufficiente per considerare i fatti del presente. Forse per pigrizia, perchè in fin dei conti è una delle caratteristiche umane più innate, affrontare un compito usando il minor sforzo possibile. Consultare le fonti del passato, analizzarle, compararle con i dati attuali, fornire diverse prospettive di lettura, scegliere la strategia risolutiva: sono tutte azioni che richiedono sforzo e energia, non sempre facilmente disponibili. Un esempio l’abbiamo davanti agli occhi, in queste due-tre settimane abbiamo sentito usare la parola virus e relative conseguenze in mille modi diversi, anche dalla medesima persona. E pazienza se il racconto viene da l’uomo che ne discute a tavola con la sua famiglia, è più che legittimo cambiare opinione; mi lascia molto più perplesso se questa mutazione di pensiero avviene dai vertici, da governatori che hanno in mano la salute dei loro cittadini… e purtroppo qualche esempio, senza fare nomi, li abbiamo sentiti: un giorno è influenza, un giorno bisogno chiudere tutto, il giorno dopo le scuole vanno riaperte, un altro giorno va estesa la zona rossa, un altro ancora il servizio sanitario è pronto, il giorno appresso la sanità è al collasso, un giorno è colpa dei topi o di chi li mangia, un giorno è pandemia. Siamo tutti esseri umani, in fin dei conti è una delle verità che questo virus ogni giorno ci ricorda. Siamo tutti esseri umani, con le medesimi fragilità, e possiamo tutti sbagliare, soprattutto nel valutare, nel dare un’opinione. E siamo così umani che infatti le parole scritte 200 anni fa calzano ancora perfettamente, mi riferisco agli ultimi paragrafi del capitolo 31 dei Promessi Sposi che raccontano come anche medici, giudici, governatori dell’epoca adattarono il loro pensiero sulla peste, a quella malattia che nessuno inizialmente voleva chiamare con il suo nome. In principio dunque, non peste, as…
Buonasera a tutti e bentornati sulle frequenze di Parole in viaggio Sono giorni molto delicati questi in Italia e nel mondo. il Covid19, comunemente chiamato Coronavirus si sta purtroppo diffondendo non solo in Cina, ma anche nel nostro Paese. Prendo in prestito le parole che spesso sentiamo nei notiziari in questi giorni, delegando agli esperti invece tutto ciò che riguarda il trattamento e la prevenzione da questo virus. La paura di contagio dal virus è giustamente elevata. In effetti, anche la parola virus porta con sè un significato chiaro, ovvero il concetto di veleno che ci assale, di una sostanza velenosa che in modo costante prova ad aggredire. Un po’ diversa invece è la situazione per l’influenza, dal latino in fluere, richiama lo scorrere dentro, insinuarsi all’interno. Sono due modalità diverse di possedere l’altro: una molto aggressiva, un operare alacremente, un’azione che senza pausa ci assale, un movimento dall’esterno verso l’interno; l’altra invece prevede che siamo noi ad aprire un pertugio, e per quanto piccolo, in fisica la regola dei fluidi è molto chiara “I fluidi si adattano alla forma del recipiente che li contiene. Questo avviene perché i fluidi non sono in grado di opporre resistenza ad una forza applicata tangenzialmente alla loro superficie” cosa significa? semplicemente che se lasciamo un fluido entrare nel nostro corpo, nella nostra vita, si adatterà alla nostra forma, riempiendo ogni nostro spazio vuoto. Noi crediamo di controllare tutto ciò che entra, perchè in realtà non deforma la nostra struttura, è semplicemente un liquido che segue la nostra forma. Forse è per questo che non ci accorgiamo di essere immersi in informazioni, credenze, idee, pensieri che non sono nostri; pensiamo di avere costantemente in mano le redini del nostro pensiero perchè il liquido inserito si adatta a noi, ma non ci accorgiamo che per quanto la struttura esterna ancora ci assomigli, il contenuto ormai è invaso giorno dopo giorno da questo fluido che si insinua in ogni angolo all’interno di noi. osa ne consegue? forse che crediamo di avere un pensiero soggettivo, quando invece a parlare è la contaminazione del liquido con la nostra essenza, ne siamo talmente immersi che non distinguiamo il pensiero altrui dal nostro. E il tutto accade ricordiamo con un movimento di apertura dall’interno verso l’esterno: non è l’aggressione velenosa di un virus dall’esterno, è una scelta più o meno consapevole di tenere aperto un passaggio, di lasciare un fluido esterno scorrere dentro di noi. Alla fine, il lavoro dell’influencer è proprio questo: mettere a disposizione parole, immagini, modi di fare, pensieri, scelte, paure, desideri, tutto questo a disposizione di chiunque decida di tenere aperto un pertugio. L’influencer non ci assale come un virus, non ci chiede di seguirlo, siamo noi ad aprire un passaggio e lasciare che entri. Avviene così la contaminazione del pensiero. E anche contaminazione ha una sua specifica radice, “tag”, sia di tangere, sia di tagmen, sia quindi di entrare a contatto con, sia di malattia contagiosa: ne deriva un contatto con qualcosa di sporco, con qualcosa che lascia il segno, che modifica la sua purezza. La nostra purezza di pensiero in cambio di sentirsi inondati da una forza esterna. E’ proprio cambiato il modo di agire, una volta erano i predicatori, gli oratori ad andare alla ricerca di un pubblico, a portare il loro pensiero, a tentare di influenzare le folle. Oggi invece la folla è seduta comoda sul divano, nella sicurezza della propria casa, lontana dalle piazze, dai pulpiti da dove un tempo si ascoltavano i relatori, e in questo comfort apre una porta ad altre persone che senza la fatica di girare le città, le piazze, le folle, riescono a insinuarsi nelle menti delle persone e senza alcuna aggressione ne contaminano il pensiero, cioè riducono quel grado di purezza, lasciando tracce di inconsapevole impurità…
buonasera a tutti! bentornati sulle frequenze di parole in viaggio! ascoltando un po’ di musica in questi giorni, mi son imbattuto in una frase che mi ha fatto un po’ riflettere e mi ha ispirato ad approfondire alcune parole. La canzone è molto conosciuta, Shallow, a un certo punto Lady Gaga chiede “Non sei stanco di cercare di riempire quel vuoto?” ad una prima lettura, può sembrare una semplice esternazione di uno stato di insoddisfazione, la mancanza di qualcosa che ci spinge all’azione di riempire, di compensare la parte mancante. Provando invece ad approfondire i singoli termini, ne esce una considerazione leggermente diversa. Iniziamo con la parola stanco. Ha visto alcune modifiche nel tempo, ma l’origine rimane il verbo latino stagnare che significa far rimanere fermo. Infatti lo stagnum si riferisce proprio all’acqua ferma, immobile, da cui il verbo stagnare, ovvero l’impossibilità per l’acqua di scorrere. Diventa stanco colui a cui manca quella leggera pendenza che permette all’acqua di muoversi. Stanca è la persona che si ferma, immobile, senza le forze necessarie per spostarsi. vuoto invece è un’altra parola interessante: l’etimologia in questo caso è un po’ più discussa, i più si concentrano sul verbo latino vacuare che significa vuotare, letteralmente rovesciare, sgomberare da cose e persone, e altri sull’aggettivo viduus, essere privo di, da cui anche deriva vedovo. In entrambi i casi siamo in presenza di un’azione di sottrazione di qualcosa, si rovescia un contenitore che rimane privo di qualcosa. La Treccani infatti definisce vuoto come ciò che non contiene quello che dovrebbe o potrebbe contenere.. infine, l’ultima parola, riempire richiama sempre il latino implere che significa oltre al classico colmare, anche condurre a termine, saziare, conseguire pienamente. Con queste piccole informazioni dalla storia delle parole, assume anche un altro significato il testo della canzone. “Non sei stanco di cercare di riempire quel vuoto?” la possiamo rivisitare come un “non hai più le forze per vincere l’immobilità e tentare di saziare le tue giornate evitando che altri rovescino la tua vita?” cambia la prospettiva, cambia che il riempimento diventa una piena realizzazione di sè, dinnanzi a un vuoto che è semplicemente la sensazione di sentirsi privati di qualcosa perchè qualcuno ha rovesciato la nostra pienezza, le nostre ambizioni. Semplicemente non conteniamo più quello che dovremmo o potremmo contenere. Da qui deriva la stanchezza, una mera stagnazione, le nostre giornate si fermano, diventano immobili come l’acqua di uno stagno. E per muovere l’acqua stagnante serve una piccola inclinazione, quella leggera pendenza che rende lo spostamento del liquido naturale. Inclinare in latino significa piegare, ma anche travolgere, far cadere oppure tendere. Questo è quello che ci serve, quando ci sentiamo immobili, quando per quanta acqua inseriamo, il vuoto non si riempie. Forse è perchè ci manca qualcosa a cui tendere, qualcosa che travolge le nostre giornate e al tempo stesso ci riempie.…
Buonasera a tutti e bentornati sulle frequenze di Parole in viaggio. è ripartito il nuovo anno, il mese di gennaio ci ha già salutati. Eppure, camminando per le strade non si respira aria di grandi cambiamenti… come spesso accade. dopo l’euforia e i buoni propositi di capodanno, tutto rimane pressoché inalterato. In modo particolare un dettaglio mi cattura spesso l’attenzione: l’essere umano è sempre più attratto da una condizione di tristezza, di inappagamento, di insoddisfazione. è come se l’animo umano fosse facilitato a mostrare il suo lato triste anzichè quello più radioso. Come se la malinconia fosse la parte principale delle nostre vite. Eppure Ippocrate ancora 2400 anni fa ci aveva invitati a porre la giusta attenzione alle dosi di malinconia da usare ogni giorno. O meglio ancora aveva sottolineato l’importanza di generare un equilibrio. Nella sua opera, “La natura dell’uomo”, affermava che “«Il corpo dell'uomo ha in sé sangue, flegma, bile gialla e nera; questi costituiscono la natura del suo corpo e per causa loro soffre od è sano. È dunque sano soprattutto quando questi componenti si trovino reciprocamente ben temperati per proprietà e quantità, e la mescolanza sia completa. Soffre invece quando uno di essi sia in difetto o in eccesso, o si separi nel corpo e non sia temperato con tutti gli altri» il segreto secondo Ippocrate sta dunque nella mescolanza, nella sintesi finale dei vari elementi. E mi permetto di aggiungere che oltre alla mescolanza, l’ideale sarebbe prima sviluppare una sorta di consapevolezza di queste emozioni, perchè in questo modo si può assaporarne ogni minimo aspetto, compreso quello stato di tristezza che spesso vagheggia per le strade. Ippocrate la chiama bile nera che altro non è che la traduzione dal greco di malinconia, la bile nera, ciò che spegne il sorriso, raffredda ogni forma di energia e tende a concentrare la prospettiva su pochi elementi. Poche cose che sottraggono l’attenzione e non corrispondono però un compenso di felicità. Anche perchè felicità è un’altra parola magica, ricca di significati: non a caso deriva dal latino felix con il quale ci si riferisce a qualcosa che è fecondo, che è fertile. Essere felici diventa l’azione con cui produciamo qualcosa, con cui non subiamo gli effetti della bile nera, della malinconia, ma decidiamo di essere noi gli attori del nostro operato. e la semplice felicità si tramuta in eudemonia quando non è un fatto isolato, ma diviene come dice la TReccani, lo scopo fondamentale della vita. C’è un cambiamento essenziale tra subire passivamente i momenti di malinconia e felicità e percorrere invece la strada in modo consapevole, non sentendoci più parte isolata, ma quasi supportati da un demone. mentre la felicità, rappresenta un elemento instabile, come cantava Battisti “Felicità, Ti ho perso ieri ed oggi ti ritrovo già”, Eudemonia invece è la dimostrazione che esiste un demone, una presenza divina, dentro di noi che ci spinge a fare costantemente il bene… un demone buono che ci guida! e allora l’augurio per la continuazione di questo nuovo anno sia davvero di incontrare un cambiamento, un cambiamento autentico, accogliere con consapevolezza le nostre emozioni, trovare il giusto equilibrio e soprattutto lasciare che un demone entri dentro di noi e ci conduca alla felicità come scopo della vita, per noi e per chi ci sta attorno.…
Buonasera a tutti e bentornati sulle frequenze di parole in viaggio. si chiude un altro anno, ne inizia uno nuovo. il ciclo delle stagioni si ripete inesorabilmente. tutto ha un inizio, tutto ha una fine. la parola inizio ci torna particolarmente interessante; dal latino initium significa sicuramente l'inizio, l'origine ma rappresenta anche Un'occasione. E se ci pensiamo bene Ogni ciclo che inizia porta con sé un'occasione speciale, porta con sé la possibilità di meditare su quello che si sta concludendo e su ciò che sta per iniziare. è un'occasione, Non è un obbligo: La differenza è molto esile Ma come spesso accade sta noi assegnare il giusto valore all'evento, sta noi cogliere la pienezza di ciò che sta per iniziare. in un momento come il capodanno forse viene spontaneo pensare, elaborare buoni propositi,, stabilire alcuni obiettivi Che si desiderano raggiungere. purtroppo sappiamo bene che quando il periodo è lungo vengono spesso meno alcuni di quei buoni propositi. Infatti l’inizio ci consegna un occasione da sfruttare o meno, un'occasione che non dovrebbe coincidere solamente con i primi giorni di gennaio per poi dissolversi nel nulla. allora Qual è il modo per non perdere anche questa nuova occasione? trasformare l'inizio in un desiderio, nel senso più profondo del termine: desiderare in latino significa contemplare le stelle, fissare lo sguardo verso l'alto, quindi non un semplice sogno che col tempo sfuma, ma un vero desiderio, uno sguardo costante verso quella fonte di luce che ci guida nella notte. perché il desiderio non si esprime di giorno, quando tutto è chiaro e limpido, Ma si aspetta la notte, quando un po' ci sentiamo più persi, alla ricerca di un aiuto, di un supporto Che infonda tranquillità all'anima. Il desiderio è una faccenda notturna, quando il tuo io è spogliato di tutto e reso invisibile agli altri. nasce In quel momento il desiderio, quando lasci andare i pensieri e rimani solo nel buio della notte. e non a caso la parola desiderio, oltre a indicare l'azione di contemplazione degli Astri celesti, porta con sé anche una piccola preposizione, il de che rappresenta proprio quel vuoto, quella distanza che ci separa dalle stelle. e dentro a questa lontananza risiede il vero desiderio, quella nostra aspirazione a raggiungere quanto prima la stella tanto contemplata. un vuoto da riempire, non con buoni ma fugaci propositi, ma con azioni vere sfruttando al massimo l'occasione che l'initium ci offre. E allora Il mio augurio Non può essere diverso, che sia un 2020 ricco di desideri, di autentiChe contemplazioni delle Stelle, per riempire quel vuoto che spesso ci invita ad alzare lo sguardo al cielo e sognare qualcosa di magnifico per la nostra vita.…
Buonasera a tutti e bentornati sulle frequenze di Parole in viaggio, la trasmissione che prova a ritrovare il significato di alcune parole che ogni giorno usiamo. In questo periodo di riflessione ho passato un po’ di tempo ad osservare le persone, come corrono, come parlano, come cambiano, come di fronte ad una sollecitazione si agitano facilmente e non tollerano quasi più niente. Già, il livello di tolleranza è veramente basso, molto ridotto, o forse è meglio dire che tra tutte le caratteristiche dell’essere umano la capacità di adattarsi potrebbe giocare brutti scherzi, nel bene e nel male. IL GRIDO E voi che pretendete che tutto vi sia dovuto con la scusa infantile che nessuno mi ha mai capito In questo caso, focalizziamo l’attenzione sull’adattamento negativo, cioè sulla presunzione che ogni avvenimento dovrebbe avvenire in funzione solo ed esclusivamente di noi stessi. Se un treno arriva in ritardo ce la prendiamo con l’intera società ferroviaria, se al bar ci portano il caffè senza la bustina dello zucchero ci vien quasi da boicottare il bar stesso, se la macchina davanti a noi non parte immediatamente al verde del semaforo non esitiamo a far sentire la nostra premura col clacson… e gli esempi potrebbero essere migliaia e migliaia… di sicuro ogni giorno ci capitano decine di episodi che mettono alla prova la nostra tolleranza. Perchè tollerare raccoglie nella sua essenza un segreto che in parte spiega la nostra fatica a tollerare. Infatti tollerare deriva dal latino tolere che significa sollevare e quindi anche sopportare; entrambe le traduzioni però fanno riferimento ad un peso, cioè lo sforzo che siamo chiamati a fare, l’energia necessaria per alzare un peso, una cosa che dal nostro punto di vista è appunto pesante. Riconoscere un peso e utilizzare la nostra energia per sollevarlo, riconoscere che una cosa, un comportamento, un evento è per noi un peso. Di conseguenza sollevare il peso diventa sopportazione del peso, diventa una fatica, perchè in fin dei conti resta comunque un peso. Ad esempio, cosa si intende quando si parla di tolleranza delle religioni diverse dalla nostra? è sottintesa la fatica che dobbiamo sostenere per riconoscere l’esistenza di un altra fede, di persone che credono ad altre divinità. Tollerare le religioni significa riconoscere il peso. Non è facile liberarsi di questo peso, finchè tolleriamo significa che con fatica sopportiamo e solleviamo questo peso. il peso rimane peso fino a quando non cominceremo ad accogliere quel peso: cosa cambia? una piccola particella contenuta nella parola accogliere, perchè i latini credevano profondamente ai dettagli. Accogliere come cum legere, cioè raccogliere insieme; si tratta sempre di uno sforzo, di alzare un peso, però lo si fa insieme, cioè ci si mette in gioco in prima persona; inoltre la particella a, posta all’inizio ricorda il fine, lo scopo, cioè in altre parole siamo chiama ti non solo a sollevare insieme il peso, ma farlo con l’intenzione, con la consapevolezza dell’azione, del sentirsi parte attiva, il peso diventa parte di noi, perde la sua identificazione esterna da noi per diventare parte della nostra vita. Accogliere diventa quindi l’opposto di tollerare, non serve più quella fatica ingiustificata a sopportare un peso, perchè il peso fa parte di noi, diventa una normale azione da svolgere senza fatica. IL PESO DEL CORAGGIO Che ognuno ha la sua parte in questa grande scena Ognuno ha i suoi diritti Ognuno ha la sua schiena Per sopportare il peso di ogni scelta Il peso di ogni passo Il peso del coraggio Certo, non è poi così facile in ogni momento passare da un piano di tolleranza a quello di accoglienza, di accettazione dell’evento, della persona, della difficoltà. Quello che ci vien chiesto è il cambio di osservazione, cambiare il punto di vista, da dove noi guardiamo. Infatti, proprio il guardare fa parte della terza parola di oggi, Rispetto. Rispetto come re spicere , un semplice sguardo che però è chiamato a fare un mo…
Bentornati sulle frequenze di Parole in viaggio, la trasmissione che prova a ritrovare il significato di alcune parole che quotidianamente usiamo. Oggi voglio ripartire dall’ultimo approfondimento, perchè ritengo meriti un ulteriore spazio. Grazie al consiglio di un’attenta ascoltatrice, desidero condividere con voi il senso ancora più radicato della parola idiota. Nella precedente trasmissione avevo definito idiota chi si dedica alla s fera privata e delega gli altri ad operare per lui; in realtà l’idiota non è solo colui che si astiene, perchè la parola trova la sua radice anche nel greco eidon, che è il passato del verbo orao, che significa vedere. Si crea quindi un legame tra l’azione dell’osservare e la conseguente decisione ad agire o meno: chi non vuole vedere, chi si priva anche della facoltà sensoriale della vista, di conseguenza non può che lasciare ad altri il compito di agire. Idiota nel senso di non voler vedere, proprio come dice Daniele Silvestri “dovevo proprio avere gli occhi bendati per non vedere tutti i giorni passati, sprecati, buttati consacrati al niente” Idiota nel senso di non voler conoscere la realtà che sta attorno, di non voler incontrare. anche perchè la parola incontro nasconde un piccolo dettaglio: noi solitamente la usiamo per definire una situazione in cui non è presente un elemento di discordia. In realtà, la sua origine racconta dell’unione di due parti, in e contro che definiscono invece tutta un’altra tipologia di circostanze. contro richiama il latino contra, ovvero qualcosa o qualcuno che si trova in una posizione opposta alla mia. La parte più interessante però è racchiusa proprio nella parola in, perchè esprime come ci sia un movimento, come la situazione non sia statica, radicata o irremovibile. In rappresenta il verso, l’azione di andare verso qualcuno. Nel momento in cui decido di incontrare l’altro, ho lasciato la mia posizione originale e sono già in movimento verso l’altro. La magia dell’incontro è la direzione, l’intenzione di movimento, l’intenzione di non voler aspettare le mosse dell’altro. Sono io che ho deciso, che sento il desiderio di muovermi, sebbene sono consapevole che l’altro si trova comunque in una posizione opposta. Ma forse ho deciso di muovermi verso l’altro perchè mi interessa, perchè sento che la rigidità delle posizioni potrebbe danneggiarmi più che giovarmi. Sento che potrei trarre un beneficio dall’incontro, sebbene questo mi costringerà a prendermi cura dell’altro e di me stesso. E uso la parola cura non a caso, in quanto tra i suoi significati va ad attingere dalla radice latina KU che significa battere, nel senso proprio di martellare. Infatti, l’incudine è proprio l’attrezzo che serve per battere. La cura diventa quindi una modalità per colpire in due direzioni: sicuramente quando ci prendiamo cura di qualcuno è sempre un’azione di invasione dell’intimità dell’altro, è come se in un certo senso creassimo un’apertura nella sfera personale, a volte anche percotendo, battendo, martellando. Sebbene il nostro possa essere un buon intento, in ogni caso prendersi cura dell’altro significa colpirlo. E in secondo luogo colpiamo anche noi stessi, martelliamo anche sul nostro sistema difensivo: perchè il prendersi cura ha bisogno di un canale diretto tra me e l’altro, non devono porsi ostacoli, nulla deve intromettersi nella relazione tra i due. E per far questo abbiamo bisogno di un elevatissimo livello di attenzione, di osservazione: non a caso il secondo significato di cura ritrova la radice nel latino KAU che significa osservare, guardare.Ecco allora che quando mi prendo cura dell’altro sono chiamato a osservarlo con attenzione, i suoi bisogni, i suoi sentimenti, le sue emozioni, e al tempo stesso non posso dimenticare di osservare anche me stesso, osservare come cambia il mio modo di essere, osservare come si modellano i miei pensieri quando mi prendo cura dell’altro. Anche perchè cura trova la sua terza radice nel sanscrito Kavi, che significa saggio: infat…
Bentornati sulle frequenze di Parole in Viaggio. L’abbiamo appena ascoltato dalla voce di Emiliano Merlin “è un tempo perfetto per vivere da idioti”. Il cantautore veronese con poche parole è riuscito a condensare il significato che il concetto di idiota dovrebbe riprendersi. Siamo tutti soliti usare questa parola nella sua inclinazione offensiva e quasi sempre è abbinata all’uso del verbo essere: sei un idiota! E all’udire una tale affermazione, pochi riuscirebbero a immaginare un intento non offensivo; non ci sono molte interpretazioni di fronte a queste tre parole: sei un idiota. “Sei” connota definitivamente uno stato della realtà, il tuo modo di essere, “sei” nel senso che fa proprio parte del tuo modo di vivere. L’articolo indeterminativo “un” ti ricorda che non sei da solo in questo mondo, o meglio ancora che non sei l’unico a detenere tale qualità, fai parte di un gruppo allargato. E infine “idiota” esprime la tua vocazione, il modo che hai scelto per interagire con la realtà, con la collettività, con la res publica. Perchè, se andiamo ad analizzare l’etimologia di idiota scopriamo che già i latini la usavano con un’accezione negativa, ma la sua origine risale al greco “idiotes”, ovvero l’uomo privato. Privato nel senso che non interagisce con la sfera pubblica, con tutto ciò che riguarda la società, il bene per la collettività. L’uomo inesperto, che non aveva le qualità per affrontare la vita politica, l’autentica polis intendo, quell’uomo veniva etichettato come incapace, come idiota appunto. Ma la linea di demarcazione tra il bene privato e il bene pubblico è ben diversa da ciò che invece intendiamo oggi per idiota, ovvero la persona che rivela stupidità o incompetenza. L’accezione che oggi noi usiamo del termine idiota si è allontanato dal suo significato originale: non siamo più di fronte a colui che non è portato a gestire incarichi pubblici e che di conseguenza preferisce l’idios, la sfera privata. Oggi idiota definisce in modo chiaro il comportamento, la concezione di stupidità, i parametri per essere accettato come normale o bollato come diverso. E la parola normale nasconde un altro piccolo segreto: siamo soliti pensare a ciò che fanno tutti, normale come indice di confronto tra ciò che è lecito fare perchè la maggior parte di noi fa e ciò che invece non è lecito fare e che è tipico dei pochi, dei diversi, degli anormali. Ma chi tra noi è pronto ad accogliere la norma? La norma in latino si riferisce alla squadra, allo strumento utilizzato dai manovali per costruire muri perpendicolari. La norma in principio è un attrezzo che funziona per posizionare due lati in modo perpendicolare tra loro, formando un angolo retto. Stiamo parlando di uno strumento pensato dall’uomo per realizzare creazioni che in natura raramente esistono: non mi è ancora capitato di incontrare oggetti naturali che seguono fedelmente un andamento perpendicolare tra di loro. I rami seguono il vento, la roccia si inclina, la stessa terra non è una superficie piatta. E’ come se la natura ci volesse raccontare che alcune regole non le ha imposte lei, alcune scelte sono completamente un prodotto della fantasia umana. La norma, la squadra perpendicolare, non è un elemento comune in natura; eppure l’essere umano ha deciso di assegnare un valore notevole, perché dalla norma, da ciò che crea andamenti retti nasce la rettitudine, l’ordinarietà delle cose e delle persone. Da un concetto inesistente in natura l’uomo ha creato uno dei presupposti per l’evoluzione della sua specie. Normale oggi è chi segue ciò che i più fanno, anormale o diverso è chi invece non segue la retta via, chi esce dall’ordinarietà, chi inclina leggermente la propria vita verso altre aspirazioni, verso comportamenti che non sono ben visti. Ma se proviamo a guardare la situazione con uno sguardo più attento, normale oggi è chi non partecipa attivamente alla vita pubblica, al bene comune, al bene degli altri perchè tende preferire l’ambito privato, preferisce…
Bentornati sulle Frequenze di Parole in viaggio, la trasmissione dedicata all’approfondimento dei significati di alcune parole che ogni giorno pronunciamo. C’è un verbo che più di tutti sta dominando la scena delle vicende internazionali: la Corea del Nord sembra essere pronta a lanciare missili intercontinentali, mentre di risposta il presidente americano Trump sembra essere pronto a reagire annientando la stessa Corea. La situazione sembra giorno dopo giorno precipitare in un cunicolo senza possibilità di ritorno. Il verbo precipitare entra nell’uso sempre più quotidiano per descrivere situazioni che all’apparenza sembrano irreversibili. Precipitare nel senso di cadere in quella voragine da cui è impossibile risalire. Precipitare però pone le sue radici nel latino praecipitem, colui che cade con la testa in avanti: l’elemento caratteristico di questa parola è proprio la testa, una testa che viene descritta come ciò che si sposta dalla sua normale posizione e di conseguenza modifica anche il consueto movimento del corpo. La testa rappresenta ciò che controlla il nostro corpo, il nostro essere: nel momento in cui perde l’equilibrio e si sposta fuori dall’asse del corpo determina un incontrollabile mutamento della parte rimanente. Un corpo senza testa non ha ragione di esistere, oltre il controllo di sè perde soprattutto la possibilità di rendersi utile agli altri e a sè. Una nazione che è parte attiva nel far precipitare le cose, perde il controllo della situazione, ma soprattutto perde la possibilità di garantire al suo popolo la sicurezza. Non c’è sofferenza più grande di patire per una scelta imposta da altri: quando è qualcuno esterno da me a scegliere cosa e come devo vivere, è esattamente il momento in cui le cose iniziano a precipitare, iniziano a spostare la testa, la mia testa lontana dal corpo. la sofferenza è veramente grande perchè non devo soffrire, sub fero, per ciò che io ho deciso di portare sulle mie spalle. Devo invece caricarmi di un peso che non è mio, anzi, che probabilmente non avrei mai portato. La sofferenza mi costringe ad allenare la pazienza, quella virtù che chiede all’uomo di affrontare il pathos delle cose. Non si tratta di essere indifferenti al dolore, di lasciarlo scorrere sulla pelle: la pazienza è una dote che va ben oltre. Ci chiede di guardare il faccia il dolore, guardare negli occhi coloro che ci caricano di pesi indesiderati, guardarci allo specchio mentre la sofferenza tenta di schiacciarci: anche perchè se non affrontiamo direttamente la situazione rischiamo di precipitare, di mettere cioè la testa in avanti, di perdere l’equilibrio e rimanere definitivamente torchiati dalla massa sovrastante. La pazienza può divenire una strada risolutiva, la pazienza è l’arte di accogliere il dolore, come fa il salice quando nevica, non usa tutta la sua forza per sopportarlo e rischiare quindi di spezzarsi dal peso. Il salice accoglie la neve sui suoi rami, si flettono, si piegano fino a far cadere la stessa neve a terra: non usa la forza per contrastare il dolore, ma lo sa accogliere, lo porta con sè e lo accompagna verso la sua strada. Forse è questo uno dei doni più significativi che la natura ci mostra: saper accogliere, saper essere flessibili dinnanzi a ciò che è doloroso, senza accorrere, senza precipitare, senza lasciarsi travolgere dall’impeto della sua forza. E forse non a caso l’uomo li chiama salici piangenti, non solo perché la forma richiama le lacrime che cadono. Piangenti anche perchè quando accogli il dolore non puoi rimanere indifferente, il dolore entra e fa parte di te: piangere è un’azione naturale dell’essere umano, e piangere richiama il plangere latino che significa percuotere, battere, colpire. Per ogni lacrima che lasciamo cadere corrisponde un colpo subito. L’indifferenza è scappare di fronte al dolore, la pazienza è aprire il proprio cuore alle percosse che ogni giorno incontriamo. Ma è anche scoprire che in questo pathos risiede un’energia infinita, se veramente siamo…
buonasera a tutti e bentornati sulle frequenze di Parole in Viaggio, la rubrica dedicata all’approfondimento di alcune parole che tutti i giorni usiamo ma di cui spesso trascuriamo la storia e il significato originario. oggi desidero soffermarmi su un’azione che quotidianamente eseguiamo: ogni mattina, appena scesi dal letto, inizia per noi una giornata caratterizzata da molti spostamenti, siamo chiamati a muovere le gambe e camminare. Il primo approfondimento riguarda proprio l’utilizzo del verbo camminare anziché alcuni suoi sinonimi, tipo deambulare o incedere. Merita un minuto di attenzione questo dettaglio perché una lingua come l’italiano per alcune parole ha deciso di trascurare l’importanza del latino scritto, per dare invece spazio alla tradizione orale. Nelle fonti romane altre parole ricoprono il significato di cammino, ambulatio, cursus, iter, ma nessuna di queste richiama l’usuale cammino. Infatti, la radice cam era propria di terre oltre il confine romano, o meglio tipiche di popoli come i celti conquistati durante l’impero. Ma perchè allora hanno scelto di accogliere tale parola in una forma non completa? Probabilmente perché i celti erano nemici, forse perché l’orgoglio è più forte della mera accettazione. In ogni caso i latini ci hanno lasciato questa eredità, accogliere il nemico come un in amicus, come un “non amico”. Alla fine, se ci pensiamo bene, nemico o non nemico, dentro questa parola è comunque contenuto il segreto dell’amicizia, una non amicizia parte dal presupposto che sia esistita prima un’amicizia. Quando l’essere umano sa di avere un nemico, sa anche di avere un non amico, sa che per alcune caratteristiche quella persona altra da sé non coinciderà con i canoni dell’amico. Per altre caratteristiche, molto spesso poche, probabilmente invece potrebbe anche essere amico. Sta sempre a noi valutare se dare maggior peso alle inclinazioni che non ci rispecchiano oppure alle qualità simili a noi. Alla fine è sempre una scelta personale, di ciascuno di noi, che di fronte ad un non amico è chiamato a domandarsi quale parte desidera assecondare. La storia ci insegna che sebbene noi ignoriamo l’altro e la sua cultura, rimarrà comunque impresso dentro di noi, resterà in ogni caso una parola anche se non è scritta, anche se semplicemente parlata, e quella parola soverchierà le sue simili, prenderà il loro posto e si insedierà nella vita quotidiana. anche perché amico porta dentro di sé la medesima radice di amare, quando si parla di amico si parla di amore; quando si parla di nemico, di non amico, si parla di non amore: è umanamente possibile non amare completamente l’altro? ci sarà sempre un dettaglio che noi apprezzeremo, per quanto malvagio sia l’altro. E se proprio volessimo approfondire anche il concetto di malvagio, dal momento che per i più il nemico ricopre perfettamente tale aggettivo, ci sono un paio di interpretazioni etimologiche a riguardo: il latino malifatius, che richiama colui cha ha cattivo fato, un destino praticamente già proiettato verso la negatività; oppure altri storici lo collegano a male levatus, ovvero colui che è stato allevato male. In entrambi i casi è abbastanza evidente che colui che noi consideriamo malvagio, dal nostro punto di vista ha una strada ben delineata: per forza di cose finirà a fare del male, perché il suo destino è un essere cattivo e lo diventerà perché qualcuno a suo tempo lo ha allevato con uno stile negativo. Cosa possiamo aspettarci da un essere umano, da un non amico come questo? Nulla di più, a meno che noi per primi non iniziamo a cambiare punto di vista e considerare quello che di solito non vediamo, a usare parole che magari non sono ancora scritte nel dizionario ma che comunque sentiamo nostre. Il vero cammino inizia anche così, immaginare che anche un nemico possa essere amato, che anche un non amico possa comunque amarci, perché la sua malvagità altro non è che il frutto di un’educazione diversa dalla nostra e di un destino che lui da solo…
Goodmorning everybody and welcome back to Parole in Viaggio. Yes, one whole year has already gone from the last broadcasting, 12 months of journeys and meetings, sharing and requests. Indeed nothing has changed in all this time, if I look at who is around me, the situation is very similar, nothing of new, we are all attached to our habits. It’s not simply to try to change, the necessary effort is very big; and if we could try, the change of an habit takes a lot, a lot of time. But why is so hard to change? Maybe is simpler to deepen its meaning, that literally shows us that habit comes from latin Habitus, simply the clothes, the dress. Now, it’s not about how many clothes we change in a day, but the first reference is more conceptual: how many of us are ready to modify our style of clothes? I suppose few, very few. And why? because the clothes represent us, or maybe it’s better saying that we project on the clothes our idea and we desire that the other could understand who we are from a first panoramic look. He doesn’t know us but he already knows something about us. We are the clothes and they drive every day of our life. After waking up it’s time to go out, using a protecting defense created exactly by clothes. It’s when we entrust to an object what we are not able to face up to alone: the fear, the fear of judgement. And the fear is the engine that makes us running to protect us, with clothes and habits: more we create them, more we control the fear. More clothes are definite, more we suppress the sense of perturbation that persecutes us. Same path by car, same bar, same time, same market, same restaurant, same friends, same actions repeated till the end. And what happens if we don’t repeat an action? We feel guilty, “perhaps I should have done that stuff…” roles reverse, habits control our life, we can’t live without them, every one of us has an habit, as Elio e le storie tese says “I’m full of habits, don’t judge me, you are like me!” And if it’s true that we are so attached to our habits, instead of changing them, maybe it’s better beginning to know them, understand why we behave in a certain way and why we are so tied to them. that’s attachement and its meaning is very interesting. Attachment, from the verb to attach, has its origin in the celtic-german language tac, that means attach, fix, grapple. In other languages the same root is about the nail, the tack and also the latin tangere is touch but also to unite, to join. Attachment therefore is a simple nail we used to fix on us one of many things we are tied to, habits included. And when we use a nail on us there is a double meaning: when we attach something on us we are getting hurt, because the nail must soak in to hold the object to us. But at the same time if we decide to remove we have to to a big effort to extract the nail. If we look around us we understand how many things we are tied to, many, maybe too many. And if we would think to a dear object, were we able to live without it? Or were we able to donate it to the less pleasant person? More we are tied to something, more we understand that we haven’t beaten only one nail, but a box of nails. And what have we to do to free us? What kind of inhuman effort have we to use? Nevertheless every day, everyone of us ties to something new, without release old connection. Every day a new nail, new habits, new ties. Is there a remedy for this? I don’t know, maybe no, or maybe yes, trying to receive the Nickelback’s suggestion: “If today was your last day, Leave old pictures in the past Donate every dime you have?” Or perhaps more simply it’s time to start to be aware, without forcing too much. We could think about what we own and what owns us. And then understand that we can let it go, freely, without expectations. We could think that we are not alone in this world and the biggest difficulty we have is to not think to the other, to the neighbour, to the friend, to someone we meet walking on the street. We…
For the 2nd time we broadcast from Spain, today we are in Finisterre. As it is written in the name, Finis Terrae represented the border of known land, no one could go further. Today it represents the place where some Santiago 's pilgrims go to burn one of their objects and Pick up a shell at the beach, the sign which confirms their pilgrimage. Today, as one thousand years ago, it isn't changed the sensation you can feel when the ocean is all around your sight and it slowly becomes red while the sun sunsets beyond the horizon. And horizon is our first word for today. In Greek HORIZÓN means circle which delimits our sight in every side . It's a circle, it's a line. For sure it's an imaginary line which can divide the sky from the earth, or from the sea in our case. But this line is very important for us because it takes the shape of a circle, of a circle which sorrounds the observer: the horizon remembers us that we are in the center of all, it remembers me that I'm the true observer and the main protagonist of this wonderful show, for me now it's the ocean, but I'm sure everyone of us has his favourite horizon, that place which can hug the observer and welcome him, as of the landscape, the panorama, is exclusively for him. And the word panorama hides a little but important detail: always in Greek, PAN means all and ORÁO means I see. It's very simple to understand that when you look at an horizon, which encloses you with its circolar hug, the panorama you are watching is simply the sensation, the pleasant sensation that makes you see everything for some instants , you can have a full sight about what you see and overall what you feel. Nature wants to give is this wonderful gift, it lets us the possibility to see everything. And after 900 km of Camino, this is the biggest gift I wish to everyone of us. "We are the greatest show after Big Bang, you and me" With these words the Italian singer Jovanotti shows us an other important detail: extraordinary events have at least two actors, panorama and observer,horizon between sky and sea, sun and horizon when it sunsets. And the sunset hasn't got a negative meaning, sunset (tramonto in Italian) means go beyond the mountains, TRANS MONTES, it doesn't mean that everything is over or that light turns off definitely. The sunset is simply a greeting, it's the way nature chose to show us how we can greet someone when it's time to divide. And there isn't a more complete and simpler model than the sunset, overall if the sun greets us beyond the horizon of the sea, or of a mountain we like. It goes slowly down and when disappears it gives us the most beautiful part, all that we didn't know he had, the light, the colours, the memory of what we lived together. And the sun goes down away, beyond that horizon which doesn't let us alone because it's a circle, an hug which let us in front of an unrepeatable panorama, in front of all we can see and feel. And with this image I stop here my Camino and with my heart I desire to thank all the pilgrims I met in this days. Buen Camino Hermanos Queridos…
Direttamente dal cammino di Santiago trasmetto l'undicesima puntata... con i semplici mezzi tecnologici a disposizione
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